IL FASCINO DEI DUE TRAPEZISTI
Un vecchio rabbino narrava di un giovane rabbino: “Parla tanto di Dio da dimenticarsi che esiste”...
Ironia graffiante da cui lasciarci interpellare. Come da queste indimenticabili parole scritte dal card. C. M. Martini nella sua lettera pastorale “Ritorno al Padre di tutti” del 1998/99:
“Si convive con Dio come uno dei tanti feticci dell’esistenza, senza lasciarsi in nulla segnare o trasformare da Lui:
è la condizione che la parabola della misericordia del Padre esprime attraverso la figura del figlio maggiore, quello restato a casa che, dopo tanti anni di convivenza col padre, è incapace di comprenderne la logica di amore e di perdono. Prigioniero della sua solitudine e schiavo dei suoi interessi (‘non mi hai dato mai in capretto!’), il figlio maggiore non è meno lontano dal padre del figlio andato via di casa: la vicinanza fisica non è vicinanza del cuore.
Si può ritornare a parlare di Dio, ma non incontrarLo e non farne alcuna esperienza profonda e vivificante”.
Viviamo il tempo di una Chiesa che si interpreta come sinodale. E’ l’occasione per riconcentrarsi sull’essenziale:
sull’immagine di Dio che ci racconta Gesù di Nazareth, non un’autorità punitiva da temere, non un Dio gelido e lontano, non un potente androne, ma un Dio perdutamente appassionato dell’uomo, tanto da amarlo fino alla follia della croce.
Un Dio che si mette alla ricerca dell’uomo come un mendicante d’amore. Una profonda relazione amorosa, una storia personale, passionale e appassionata, con Gesù e non il semplice appartenere a una religione: è questo su cui val la pena interrogarci.
La scoperta essenziale della vicinanza del nostro Dio.
Il nostro Dio è questo: una mano che ci tiene quando più nessuna mano ci tiene. E’ una mano che ci accarezza e ci consola, che asciuga le nostre lacrime, che ci sostiene nel cammino e che ci strappa alla morte. Già ora, qui.
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