Di tempio si parla nel primo libro dei Re, il tempio costruito da Salomone; di tempio si parla nella lettera ai Corinzi, il tempio formato da tutti noi; di tempio si parla nel brano di Marco, con Gesù che osserva cosa succede nel tempio. Salomone, da un lato è orgoglioso del tempio che ha edificato, quel tempio che non era stato dato a suo padre Davide di edificare. Lui l’ha edificato, ma nella sua bellissima preghiera non può dimenticare che Dio non sopporta di essere sequestrato, contenuto in mura, è oltre ogni limite.
Salomone non può per onestà nemmeno dimenticare che Dio a suo padre Davide aveva detto senza mezzi termini la sua preferenza, quella di abitare non tanto dentro mura, ma dentro una discendenza, dentro la storia viva di un popolo. Di un popolo che per essere tempio e dimora di Dio deve “vegliare sulla sua condotta”. Un’esortazione che ritroviamo anche nella lettera ai Corinzi, dove Paolo attribuisce alla Chiesa, alla comunità, l’immagine del tempio. Ma mette in guardia i responsabili della comunità dal porre sé stessi come fondamento della comunità stessa, come se la comunità si reggesse su di loro: “Nessuno può porre fondamento diverso da quello che già vi si trova che è Cristo Gesù”.
E così siamo introdotti al brano di Marco. Quello della donna vedova che nel tesoro del tempio fa scivolare silenziosamente due monetine che fanno un soldo. Ci potremmo chiedere che cosa onora e che cosa disonora il tempio. Siamo nel tempio, il tempio di Gerusalemme.
Quel giorno lui si trovava nel tempio e vide una donna, vedova, povera, mettere nel tesoro del tempio tutto quello che aveva. Lui “osservava” come la folla vi gettava le monete. Per Gesù, notate, conta il “come”, non si ferma alla quantità delle monete. Guarda come noi facciamo le cose, con che spirito le facciamo. E mi colpisce, Gesù alla fine del Vangelo – questo è il suo ultimo gesto prima dei giorni che introducono la Passione – lui chiami i discepoli, li convochi a guardare: chiamati a sé i suoi discepoli”.
Ma chiama anche noi. A osservare questa donna, vedova, povera e il suo gesto profumato di silenzio.
Alla fine del ministero, è lei, pensate, a raccogliere l’eredità del suo messaggio, lei, miracolo compiuto del vangelo. Chiama i discepoli, li convoca, perché puntino gli occhi su di lei.
“In verità, io vi dico”: dunque un insegnamento, un insegnamento importante. E mette in cattedra una poveretta. Porta lo sguardo sulla donna e ha appena finito di ammonire perché si distolga lo sguardo dai personaggi che passeggiano per le strade a anche per le mura sacre. Ha appena finito di dire “guardatevi da” come volesse dire, “via lo sguardo da” via gli occhi dalla loro cattedra.
La condanna per loro, dice Gesù, è più severa perché coprono con il nome di Dio la loro vanità, che crea distanza dalla gente comune. Sbandierano il ruolo, ma sono solo apparenza, sono ipocrisia. Nel tempio ci sono, ma non con il cuore. Non sono veri. Nel tempio per grazia, a onorarlo e non a sconsacrarlo, c’è quella donna vera. Lei sì c’è, con la profondità e la verità di se stessa, lei così com’è, c’è con il cuore. Lei silenziosa, lei che non fa cantare l’offerta nel tesoro del tempio. Lei da mettere in cattedra.
Voi mi capite, dentro un mondo che fa questioni di ruoli di successo, di pubblicità, di riconoscimenti, di rilevanza mediatica – esisti se vai in televisione e se non sei là non esisti – dentro un mondo in cui ci si incontra tra maschere, dietro i ruoli, ecco la donna che Gesù mette in cattedra. E perché la mette in cattedra?
“Amen” dice, In verità vi dico: questa vedova così povera ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo, lei invece nella sua miseria vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.
Oggi la guardiamo: non sappiamo il nome della donna, ma la guardiamo. Ci sentiamo, io per primo, molto lontani da quel gesto estremo. Eppure, se non siamo spenti, ci affascina, sentiamo che i passi sono da muovere in quella direzione.
Il vostro parroco, don Mauro