“Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare e i discepoli erano con Lui” (Lc 9,18). Inizia così la pericope che ci viene oggi consegnata. Gesù, dopo la sua attività in Galilea, si trova a uno snodo, ha odorato nell’aria sia l’ostilità delle autorità religiose sia l’incomprensione delle folle. Ora, in modo forse più intenso, intende dedicarsi alla formazione dei discepoli.
Si trova a pregare con loro. Luca nel suo Vangelo sottolinea in modo particolare i momenti di preghiera di Gesù. Che spesso avvengono alla vigilia di scelte importanti. Qui siamo alla vigilia di un cammino che porterà i discepoli a scoprire la sua vera identità. Pone la domanda su che cosa pensa di lui la gente. Le risposte sono emblematiche, perché non fanno altro che rinchiudere l’immagine di Gesù nelle figure del passato, come se lui fosse una riproduzione dei profeti e non invece un inedito, non imprigionabile in schemi antichi.
Pone la domanda ai discepoli e sente dire per voce di Pietro: Tu sei il Cristo di Dio”. I discepoli intravedono in lui dunque la figura del Messia.
Ed ecco lo sconcerto, uno si aspetterebbe parole di consenso, se non di elogio, per una risposta che si avvicina alla vera identità di Gesù. Per nulla! “Egli ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno”.
Mi ha sempre colpito la pesantezza di quell’avverbio: “severamente”.
Un Gesù che usa la severità, tutta la sua verità, pensate; per parole che sembrano dire una devozione. E come risposta? Ci si guardi bene dal parlare di lui come Messia! Ma perché? Perché la parola “Messia” era stata contagiata, aveva subito contagio, a forza di essere legata a una visione di un Messia dominatore, potente, politicamente trionfante.
Mi capita di chiedermi se anche oggi Gesù, come allora, non debba ordinare alla Chiesa di tacere, se non debba essere severo con noi, che non siamo poi così immuni dal contrabbandare, a parole e a gesti, una falsa immagine di Gesù e di conseguenza del cristianesimo: un cristianesimo muscolare che sogna potere o un cristianesimo della compassione, della mitezza?
Lui, Gesù, non si riconosce nell’immagine dell’uomo forte. Si riconosce invece – e questa è da raccontare – nella figura del Figlio dell’Uomo.
“Il Figlio dell’Uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno”.
Come a dire che la sua vera identità, chi egli veramente sia, lo si riconoscerà nella sua uccisione. Ultimo, definitivo, non equivocabile svelamento. E pensate nell’ora dello svelamento, con lui saranno due malfattori, non i discepoli, non Pietro che forse si era esaltato per la sua dichiarazione, ma solo le donne che lo avevano seguito dalla Galilea e si prendevano cura di Lui. C’è dunque un mistero da riconoscere in Gesù e per riconoscerlo devi metterti dietro di Lui, camminare fino all’ora della croce e della risurrezione. Dove potrai contemplare un Messia che muore per un’immagine diversa di Dio e dell’uomo, della terra e del cielo, immagine che lui difende a costo di croce.
Vi dicevo che a volte mi sorprendo a immaginare che Gesù entri nelle nostre assemblee liturgiche e ci ordini severamente di tacere.
Lo ordini a noi che anche questo giorno abbiamo proclamato: “Tu solo l’altissimo Gesù Cristo, tu il Messia”. Ma vedete già in agguato è l’equivoco della parola “altissimo”. Altissimo come?
L’alto è l’alto della croce, l’alto di un amore che non si ritrae, che rischia, incondizionato nella sua assolutezza. Ed è un peccato che il racconto di Luca sia stato tagliato a questo punto. Perché l’insegnamento ai discepoli, non si chiude così, ma va a rivendicare lo stesso cammino per chi vuole seguirlo, il cammino di chi la vita non se la tiene stretta per sé, ma la interpreta come mettersi a servizio, una vita abitata dalla passione per Dio e per gli altri, come era abitata quella di Gesù.
Sfiori nel racconto una triste possibilità, quella di una riduzione della fede a proclamazione. Il pericolo di un simbolo vuoto, di un Gesù ridotto a simulacro, un pericolo che la Chiesa vive a ogni stagione, e noi non ne siamo esenti, nemmeno oggi.
Lo ricordava il regista Ermanno Olmi, in una intervista: “Troppo facile e ambiguo affermare il valore di un simbolo – e si riferiva al crocifisso, - che deve rinviare alla realtà di carne per avere valore”. “Di fronte a un Cristo di cartone tutti si genuflettono; inginocchiamoci invece davanti a coloro che soffrono”. “Cristo ha pagato due millenni fa. E’ troppo comodo inginocchiarci davanti a un simulacro”. E aggiungeva; “Vorrei suggerire ai cattolici, e io sono tra questi, di ricordarsi di ricordarsi più spesso di essere anche cristiani poiché il vero tempio è la comunità umana”.
Come ognuno di noi può avvertire non si tratta di una critica alla fede, ma a una visione soltanto ritualistica della religione, un invito ad aprire le porte a tutti.
Aprire le porte a tutti. E’ questa l’identità del Messia, quella evocata oggi dal profeta Isaia sotto l’immagine bellissima del vessillo.
Vedete, un vessillo lo si può alzare per dividere – e ne conosciamo purtroppo! – ma in vessillo lo si può alzare per radunare, per far affluire verso destini comuni, per aprire una strada per tutti.
Questo il Messia di Nazareth. E questo saranno coloro che ancora oggi credono in Lui. E credendo, lo seguono.
Il vostro parroco, don Mauro